giovedì, giugno 21, 2018

Terra, terra, terra

Il carro funebre fermò con discrezione la sua marcia. Quattro uomini scaricarono il feretro e lo deposero proprio in mezzo al silenzio della folla. Prese parola un uomo vestito da prete, che incominciò a dedicare alla defunta generiche parole di cordoglio. Polvere alla polvere. Terra. Era una brava persona. I quattro uomini calarono definitivamente la bara nella fossa. Sembrava un film americano, invece era il cimitero di Lampedusa. Terra.
“Sì, ma come è morta?” – bisbigliò alla vicina una donna anziana.
Le prime manciate di terra interruppero la regolarità lucida e scura del legno della cassa.
“Un’insegnante. E basta! Che importanza ha il colore della sua pelle?” – sussurrò stizzito un uomo, guardando con la coda dell’occhio verso l’amico in giacca e cravatta.
La parola passò a un gruppo di uomini sui trent’anni, che in un italiano stentato continuavano a ripetere “la nostra prof” accanto a parole emozionate e semplici. Ognuno gettava terra sulla bara finché la terra scura non riempì ogni molecola di ossigeno. Terra.
“Erano suoi studenti, insegnava italiano” – sibilò sommessa una voce dietro a un elegante cappello di paglia.
“Sì, ma come è morta?” – chiese un ragazzo che la conosceva solo indirettamente.
Una donna sulla quarantina piangeva più di tutti. Inconsolabile e liberata.
“La mia Stefy! La mia Stefy!” – ripeteva a mezza voce, come se recitasse un mantra, sola davanti al grande mare.
Arrivato il suo turno, la donna sulla quarantina lanciò terra sulla terra, e poi ancora terra, terra, un fiore, e poi ancora terra. Non riusciva a parlare, ma poi con voce rotta sembrava ripetere a parole l’incessante rituale di quel gesto.
“Terra, terra, terra, è stato il suo primo sogno. Mare, e poi terra, terra, e ancora terra”.
“Sì, ma come è morta?” – chiese una ragazza che passava da lì quasi per caso.
“Sì, ma come è vissuta?” – non chiese nessuno.