sabato, giugno 16, 2012

Occhi negli occhi

Mohammed è immobile. Fedele guardia del corpo del placido monarca, lo difende con la sua stazza ottusa. Di fronte a lui, Amedeo scatta in avanti con un grande balzo, e inizia a guardare Mohammed negli occhi. Poi sembra tranquillizzarsi, ma inesorabile continua la sua avanzata: un passo, un altro passo, senza mai distogliere lo sguardo. Adesso è proprio davanti al vecchio nemico, conosciuto e troppo simile a lui. Mohammed lo vede chiaramente arrivare, e con una sorta di compassionevole rispetto lo attende fermo, senza nascondere una spavalda espressione di sfida. Occhi negli occhi, la loro somiglianza è sbalorditiva. Stesso senso del dovere, stessa arroganza ottusa e determinata a guardare sempre avanti, a costo di perdersi le sfumature della vita. Tutto bianco o tutto nero, entrambi tagliano corto: le tonalità di grigio le lasciano a quei fancazzisti che hanno tempo da perdere. Si assomigliano anche nei tratti somatici: sono entrambi tozzi, brevilinei ma possenti. Carichi come molle compresse a terra, sono pronti a balzarne via con rabbia. Il torace palestrato è coronato da un collo taurino tornito con meticolosa ignoranza. Il collo, decorato da una volgare catena d’oro, sorregge una grande testa regolare e completamente rasata, in mezzo a cui sono ficcati degli occhi rotondi, piuttosto belli ma inespressivi. Sembrano studiati per incutere una paura liquida senza forma, senza profondità, come cellule non differenziate pronte ad assumere il proprio ruolo, onesto e cattivo. L’unica apprezzabile differenza è scolpita nel loro codice genetico: Amedeo, svizzero di origini siciliane, è bianco, mentre Mohammed, per dirla con un’espressione che a lui stesso non piace, è di colore. Preferirebbe “negro”. Questo termine contiene tutta l’onesta ottusità con cui è stato forgiato, e che si porta dentro. Nato in Senegal e da più di metà della propria vita in Europa, è sempre stato abituato a sacrificarsi per gli altri, senza pensarci troppo.

Amedeo e Mohammed, uno di fronte all’altro, sono separati ormai da pochi centimetri, e nessuno dei due vacilla, occhi negli occhi, come specchi ripetitivi di una guerra di cui sono attori, non protagonisti. L’unico rumore che accompagna questo magnetico scontro è il fastidioso ticchettio di un orologio. Distante e inesorabile, il suo incessante tic-tac sembra prevedere il loro inevitabile futuro, o forse solo allontanarlo un po’. Scandisce il tempo per esorcizzare una promessa che nessuno dei due vorrebbe mantenere. Amedeo e Mohammed sono destinati ad uno scontro che non dovrebbe arrivare mai, almeno non in questa vita, almeno non secondo il loro cuore. Occhi negli occhi, battiti nei battiti, pensieri nei pensieri, improvvisamente vengono salvati da una voce salvifica e lontana, che spezza questo tremendo incantesimo d’attesa. La sentono distintamente, e capiscono che miracolosamente è tutto finito. “Scacco matto!”. Il ticchettio cessa.

Improvvisamente i due pedoni si sentono sollevati e tornano a dormire di un sonno senza gerarchie. Fino al prossimo scontro.

mercoledì, giugno 06, 2012

Vigilia


Genova, leggera brezza di tramontana.
Cielo terso, mare spensierato.
Dopo una pausa, sbuffando pigro, l’autobus accoglie la donna e la bambina nel suo ventre arancione. Le inghiotte in uno sbadiglio e con uno scatto sonnecchiante riprende il suo cammino frastagliato.

Elisa prende con grazia la mano di sua madre, e con la mano libera, in un elegante gesto che sembra nascere da un rito giapponese, sistema i capelli biondi con il fermaglio di Hello Kitty, sotto il berretto di lana. Un gesto silenzioso, naturale e preciso. Guarda la madre, la strada, poi ancora la madre e gli altri passeggeri. Ora si distrae, sa che può farlo. Chiude gli occhi e poi, ogni tanto, li riapre. Le piace viaggiare sull’autobus, a Genova, anche in piedi. Le piacciono gli improvvisi sobbalzi sull’asfalto disconnesso, il ruvido vibrare del motore sotto la suola delle scarpe, le frenate in discesa, le improvvise svolte in salita, e le curve che disegnano il profilo del mare. E’ un gioco continuo, piacevole e discreto, a cui lei deve soltanto abbandonarsi. Dopo la fermata dell’autobus in Piazza Sturla la mamma alza il suo sguardo, fino a quel momento rivolto con intensa premura verso Elisa, e si accorge della presenza di Tony, seduto a pochi metri da loro, con lo sguardo incorniciato nel metallo sottile degli occhiali, incartato come un regalo prezioso nella bambagia di una rassicurante barba di cotone, e rivolto quasi con devozione oltre il finestrino, molto più lontano.
A Elisa, Tony ricorda la versione simpatica di Babbo Natale. Ora, non è che Babbo Natale non sia simpatico, ma le è sempre parso che manchi qualcosa. Un po’ come la luna, puoi sempre ammirarne una faccia, quella rivolta verso di noi, verso il pubblico, verso i sorrisi e le macchine fotografiche. Ma chi ha mai visto Babbo Natale di schiena? Chi ha mai intuito i pensieri che nasconde dietro la barba e dentro al cappello?
Tony, invece, basta guardarlo per poterlo vedere tutto con un solo sguardo, anche di schiena, anche i pensieri. E poi sa ridere, non si fa pregare per estrarre i suoi contagiosi denti di castoro e riempirli di autentica gioia, curiosa e sghignazzante.
“Ciao” – dice la mamma al vecchio amico – “Pensavo fossi rimasto in Canada, non aspettavo di vederti qui, la Vigilia di Natale”.
E’ un’affermazione che in realtà assomiglia molto a una domanda, a cui Tony, dopo una pausa quasi teatrale e avere tuffato ancora una volta le dita nella barba, si decide a rispondere con il suo inconfondibile accento italo-canadese.
“Quest’anno volevo respirare un po’ di Genova”.
La bambina lo fissa per un attimo, come se fosse innamorata, di qualcosa che sta vicino al baricentro tra Tony, Genova, il gioco e un’idea.
“E dove vai di bello?” – chiede incuriosita la mamma.
La risposta non tarda ad arrivare.
“Non vado. Sto sull’autobus”. E dopo una pausa: “Oggi lo passo sul 15, mi culla come una madre tra le curve di Genova. Mi mancava questa sensazione di gioco continuo”.
L’autobus sobbalza.
Elisa gli sorride senza guardarlo dritto negli occhi, con un sorriso complice di un’idea semplice.
L’autobus sobbalza ancora, ed Elisa arrossisce. Come per un vezzo automatico si sistema ancora il fermaglio di Hello Kitty. Ovviamente non ce ne sarebbe bisogno. E spera che quel viaggio, quel gioco, l’incontro con quel signore, possa durare veramente a lungo.

E’ la vigilia di Natale, e tutto sembra elasticamente caricato di attesa.
Mai fermi, sempre in equilibrio, come Genova e il suo mare.