sabato, novembre 07, 2020

Il fascino moderno della vulnerabilità

St. Vincent (Annie Erin Clark) a proposito della creatività, nel 2020, scrive “In my career, I’ve learned that in order to connect with other humans, one must embrace vulnerability, cherish it, and lean into it”. Vasco Brondi (Le Luci della Centrale Elettrica) nella sua canzone “Qui” del 2017 scrive e canta nel ritornello questa frase meravigliosa: “È un superpotere essere vulnerabili”. Vulnerabilità. È una nuova parola chiave. Mi sono chiesto se sia io a cercare (e quindi a trovare) quelle che mi sembrano le tracce di un’idea a me sempre più cara o se effettivamente un’estetica nuova stia iniziando a permeare la nostra società, la nostra cultura, la nostra arte, le nostre vite. Muoviamoci indietro di qualche anno. Non serve andare tanto indietro per imbatterci in una retorica monolitica, di sicurezza figlia della forza, di stabilità figlia di equilibri statici, di modelli fissi, inscalfibili, profondamente funzionali. Tutto ciò che metteva in discussione questi equilibri era visto come negativamente caotico e improduttivo. Avevamo “l’uomo che non deve chiedere mai”, “la donna in carriera”, "Un punto sei, che non ruota mai intorno a me”, Avevamo le persone “tutte d’un pezzo”. Avevamo la certezza onnipervasiva di qualsiasi mono-. Altro che tutto d’un pezzo, io mi sento più che altro un mosaico, in continuo divenire, e “detesto il chiché dell'uomo che non deve chiedere mai, dato che se non chiedi non sai” (Caparezza, “La mia parte intollerante”, 2007). Il recente passato è dominato da un fascino monolitico, da vite di successo costruite nella certezza della pietra: i sedicenti vincenti si arroccavano nell’inespugnabile fortezza della propria forza. Vulnerabile voleva dire distruttibile, fragile, e quindi debole. Distogliere lo sguardo significava perdere tempo e integrità. Siamo tuttora figli di quell’estetica, di quella retorica e di quella cultura, tanto che ancora oggi tendiamo a confondere la vulnerabilità con la debolezza. Ma questi sono tempi di sabbia, dobbiamo essere veloci a capirlo. Se guardiamo la sabbia con gli stessi occhi con cui guardiamo la pietra ci appare fragile, ci appare poca cosa. Ma poi a un certo momento capisci che la sabbia ha altre qualità. La sabbia può essere mescolata con altra sabbia. La sabbia è discreta per costruire, ma è ottima per ricostruire. La sabbia è accoglienza e approdo. La sabbia è la fantasia di un castello sulla spiaggia. La sabbia è fragile, ma può veramente essere distrutta? E più penso a questa cosa più mi sento a mio agio in questo mondo nuovo. Un mondo in cui vale molto più dire “mi manchi” che “non posso stare senza di te”. Vulnerabile è molto più vicino a “permeabile” che a “debole”, e io stesso mi sento affascinato, e perché no affascinante in un modo diverso. È un fascino che non vede le lacrime come sfocature ma come caleidoscopi, che vede la fragilità non come difetto ma come profonda e autentica condivisione di umanità, che vede il dubbio non come avversario ma come nuova fonte di domande, che vede la vulnerabilità come raffinata forma di condivisione, che aborrisce le dicotomie e adora le sfumature. Essere vulnerabili è davvero un superpotere che molti, ancora, non sanno riconoscersi.